Lo stemma
più antico dei Borromeo è suddiviso in due metà: da una parte reca fasce diagonali ondulate, dall'altra tre fasce verdi in campo rosso sormontate da una banda trasversale d'argento; in seguito vi si aggiunsero, a seconda dei rami, numerosi altri simboli (fra cui l'unicorno e il cammello) e il motto Humilitas.
I Borromeo, che appartengono alla famiglia resa celebre da san Carlo, sono originari di San Miniato al Tedesco, ridente cittadina situata in prossimità di Firenze.
Verso la metà del 1300, essi rappresentavano una delle varie famiglie che in Italia portavano il cognome de' Buonromei o Borromei. Molte di esse si sono presto spente senza lasciare traccia. Anche i Borromeo di San Miniato, in epoche diverse, si sono tutti estinti: alcuni hanno continuato a vivere a San Miniato fino al secolo XIX; altri sono emigrati a Padova, Venezia e Milano; altri ancora hanno perso la vita nei ricorrenti scontri tra guelfi e ghibellini.
Un Filippo (morto nel 1370), ricco, potente e capo di parte ghibellina, nel 1367 guidò, con l'appoggio dell'imperatore Carlo IV e di Gian Galeazzo Visconti, la rivolta di San Miniato contro i guelfi fiorentini. Tre anni più tardi, dagli stessi fatto prigioniero, fu decapitato con diciassette dei suoi. Egli ebbe cinque figli: i quali, minorenni al momento della rivolta, furono in seguito graziati. Tuttavia, già prima dell'infelice destino del padre, si erano rifugiati con la madre a Milano, recando con sé ciò che avevano di più prezioso.
Ivi Giovanni, uno dei cinque, che dal 1394 vi aveva preso la cittadinanza, fece venire da Padova sua sorella Margherita, rimasta vedova di Giacomo o Jacobino Vitaliani, e il di lei figlio giovinetto di nome Vitaliano. I Vitaliani erano una delle più antiche famiglie di Padova, che vantava tra i suoi ascendenti santa Giustina, martirizzata durante la persecuzione neroniana e papa san Vitaliano (657-72), e che era imparentata con la nobiltà dogale veneziana.
Giovanni Borromeo, insieme a due fratelli, si dedicava ad attività mercantili e bancarie: queste ultime, in particolare, venivano svolte attraverso una banca con sede a Venezia e filiali a Milano, Roma Bruges e Londra. Essendo privo di discendenza, Giovanni associò dapprima il nipote Vitaliano alle proprie attività, quindi, nel 1406, lo adottò con l'obbligo di abbandonare il cognome paterno e assumere quello della famiglia materna. Vitaliano Borromeo, già Vitaliani, può quindi considerarsi il capostipite dell'attuale famiglia Borromeo di Milano. Per compiacere allo zio, affiancò nello stemma, accanto alle onde cerulee dei Vitaliani, le fasce di Svevia dei Borromeo, inquadrando nello scudo anche il motto Humilitas, che era pur esso dei Borromeo e che, più tardi, san Carlo inserirà nel proprio stemma cardinalizio.
Vitaliano sviluppò l'azienda dello zio aprendo due nuove filiali della banca a Burgos e a Barcellona. Nel 1416, gli venne concessa la cittadinanza milanese; nel 1418, fu creato tesoriere ducale. Da quel momento la sua ascesa appare inarrestabile: nel 1432, ottiene dal duca di Milano, Filippo Maria Visconti, l'autorizzazione a fortificare il suo palazzo fuori città (l'attuale castello di Peschiera Borromeo); tra il 1439 e il 1440, riceve dal duca vari feudi, tra cui quello di Arona sul lago Maggiore, del quale, nel 1445, gli viene conferito il titolo di conte.
Nel 1447 moriva il duca Filippo Maria. Subentrata la Repubblica ambrosiana - dalla quale acquistava la rocca di Angera, sull'altra sponda del lago Maggiore, quasi in faccia ad Arona - Vitaliano caldeggiò l'apertura di trattative con il genero del defunto duca, Francesco Sforza, che aveva cinto d'assedio la città. Vitaliano doveva però morire il 4 ottobre 1449, pochi mesi prima della vittoria sforzesca. La tradizione vuole che fosse nel castello di Peschiera che Francesco Sforza, ospite del figlio primogenito di Vitaliano, Filippo, ricevesse, nei primi mesi del 1450, la delegazione milanese che veniva a offrirgli il ducato insieme con la resa di Milano.
Grazie alla riconoscenza del nuovo duca, Filippo si vide colmato di ricompense e onori, tra cui il titolo di conte di Peschiera nel 1461; grazie alla sua abilità, seppe dare ulteriore impulso all'azienda paterna, con la creazione del Banco Filippo Borromeo e Compagni di Bruges e le sue filiali di Londra e Barcellona. Alla sua morte, nel 1464, egli lasciava un ingente patrimonio di capitali e terre, che andò successivamente accrescendosi sotto i suoi discendenti Giovanni (1439-1453), consigliere ducale e senatore, Lodovico (1468-1527), governatore del ducato all'epoca dell'occupazione francese sotto Luigi XII, e il fratello Lancellotto (1473-1512), sposato alla figlia del doge di Genova, Luisa Adorno: a quest'ultimo si deve l'acquisto, sul lago Maggiore, nel 1501, dell'isola di San Vittore (oggi isola Madre) e dell'isola Bella, la quale era allora un semplice scoglio.
Estinti i rami collaterali, la discendenza continua con Giberto (1461-1508), figlio di Giovanni, che aveva sposato Maddalena, figlia di Federico, marchese di Brandenburgo e sorellastra della marchesa di Mantova, Barbara Gonzaga; con Federico (1492-1529), comandante della cavalleria ducale e membro del Consiglio Generale della città di Milano, e con Giberto (1511-1558), il quale seppe conquistarsi la fiducia di Carlo V, quando, dopo il 1535, il ducato passò sotto la Spagna.
Dai suoi tre matrimoni, Giberto ebbe soltanto due figli maschi, Federico e Carlo, dalla prima moglie, Margherita, sorella di Gian Giacomo Medici, uomo d'arme e poi generale di Carlo V, e del cardinale Gian Angelo. Una svolta nelle vicende familiari si ebbe allorquando, il 25 dicembre 1559, il cardinale Medici venne eletto papa con il nome di Pio IV.
Nel gennaio 1560, chiamò presso di sé i due nipoti maschi, che nel frattempo erano rimasti orfani di padre e di madre. Federico (1535-1562) fu ricoperto di cariche, onori e titoli: fu fatto generale di Santa Romana Chiesa, duca di Camerino e principe di Oria. Morì improvvisamente, nel 1562, poco tempo dopo aver sposato Virginia della Rovere, figlia del duca di Urbino Guidobaldo.
Anche l'altro nipote, Carlo (1538-1584), il quale era già stato avviato alla carriera ecclesiastica, beneficiò dei favori dello zio pontefice. Pur non avendo che ventun anni, fu elevato al cardinalato e creato arcivescovo di Milano, con l'ordine, però, di rimanere a Roma a svolgere le funzioni di cardinal nipote - equivalenti a quelle che più tardi competeranno ai segretari di Stato - e a mantenere i contatti con i vescovi in quel momento riuniti a Trento per la celebrazione dell'ultima fase del Concilio.
La scomparsa dell'amato fratello e il crollo di tanti progetti ideati per lui sprofondarono Carlo in una tremenda afflizione e ne promossero un radicale cambiamento di vita. Fu sollecitato, consenziente il pontefice, a lasciare l'abito ecclesiastico - non aveva infatti ancora ricevuto nemmeno l'ordinazione sacerdotale - e a continuare la discendenza della famiglia. Rifiutò, e si fece ordinare sacerdote e consacrare vescovo. Morto il papa nel 1565, si trasferì definitivamente a Milano, da dove non si mosse più se non per viaggi occasionali, soprattutto per prendere parte ai vari conclavi. Rinunciò ad abbazie e pensioni, fece dono dei beni di famiglia ai parenti, distribuì ai poveri il ricavato di beni personali, difese strenuamente i diritti della Chiesa Ambrosiana e vi introdusse con fermezza e sistematicità le riforme imposte dal Concilio di Trento. Visitò più volte la diocesi, fin nei più sperduti villaggi montani, indisse sei concili provinciali e undici sinodi diocesani. Scoppiata nel 1576 la peste, si prodigò in mezzo agli appestati con la parola e con la preghiera. Per quasi vent'anni visse una vita santa: una vita di dedizione al proprio dovere episcopale e al prossimo, di rinunce, di ascetismo, di austerità. Sotto questo profilo, egli incarnò il modello del vescovo secondo gli ideali tridentini. Morì il 3 novembre, consunto dalla fatica e dalle privazioni. Fu sepolto in Duomo e canonizzato da Paolo V nel 1610.
Con la scomparsa di san Carlo, l'unico ramo superstite della famiglia è quello cadetto di Giulio Cesare (1517-1572), fratello minore di Giberto. Giulio Cesare ebbe due figli maschi: l'uno, Renato (1555-1608), sposò nel 1579 Ersilia Farnese, figlia di Ottavio, duca di Parma e Piacenza e poté condurre vita splendida, essendo il cospicuo patrimonio della famiglia venutosi a concentrare nelle sue mani; l'altro fu il cardinale Federico, la cui figura sarà poi suggestivamente rievocata da Alessandro Manzoni nel suo celebre romanzo I Promessi Sposi.
Avviato sin da giovinetto alla carriera ecclesiastica, Federico (1564-1631), fu fatto cardinale da Sisto V, nel 1587, a soli ventitré anni, e consacrato arcivescovo di Milano nel 1595. Sacerdote esemplare e uomo di vasta cultura - scrisse numerose opere, per la maggior parte rimaste inedite, sui più svariati argomenti - fondò a sue spese, nel 1609, la Biblioteca Ambrosiana, il cui disegno definitivo sembra sia stato opera di Francesco Richino oppure di Lelio Buzzi, e alla quale più tardi unì l'Accademia di pittura, scultura e architettura. Fu pastore sollecito e amorevole della sua diocesi e devoto all'esempio del cugino predecessore e santo. Nel conclave del 1623, gli mancarono pochi voti per raggiungere l'elezione. Morì il 21 settembre 1631, dopo che l'anno precedente si era anche lui prodigato, come il cugino Carlo, in favore degli appestati nel corso di un'altra epidemia.
Figure di spicco nelle generazioni successive della famiglia Borromeo furono ancora due ecclesiastici: Federico (1617-1673), nunzio a Lucerna e a Madrid, nel 1670 fu creato cardinale da Clemente X e nominato segretario di Stato; Giberto (1615-1672), cugino del precedente, fu creato cardinale nel 1654: concorse con ingenti somme alla costruzione dell'isola Bella che, con il suo grandioso palazzo e i suoi giardini a terrazzo, suo fratello Vitaliano (1620-1690) aveva affidato all'architetto Carlo Fontana.
Nel periodo finale della dominazione spagnola, si distinse Carlo (1657-1734): fu il primo della famiglia ad aggiungere al cognome Borromeo il cognome materno Arese, che rimase poi riservato al ramo primogenito. Si sposò due volte: la prima con Giovanna Odescalchi, nipote di Innocenzo XI e sorella del duca di Bracciano; la seconda con Camilla Barberini, pronipote di Urbano VIII e figlia del principe di Palestrina. Amante delle arti, amico di artisti, letterato e studioso, chiamò a Milano il giovanissimo Ludovico Antonio Muratori e lo nominò dottore dell'Ambrosiana. Insignito del Toson d'Oro e del Grandato di Spagna, svolse anche attività pubblica come Vicario imperiale in Italia e, nel 1686, come ambasciatore straordinario di Spagna a Roma. Dal 1710 al 1713, tenne la carica di viceré di Napoli, dopo che gli antichi domini spagnoli d'Italia erano passati all'Austria: svolse la sua missione con eccessivo rigore, forse, ma per contro con la splendidezza che il suo cospicuo patrimonio familiare gli consentiva. Il fratello minore di Carlo, Giberto (1671-1740), fu invece ecclesiastico: uomo di grande ingegno ed erudizione, fu eletto vescovo di Novara nel 1713 e creato cardinale da Clemente XI nel 1717.
La discendenza di Carlo continua, attraverso il figlio Giovanni Benedetto (1679-1744), con i nipoti Renato (1710-1778) e Francesco (1713-1775), capostipite del ramo cadetto denominato di San Maurilio, dal nome della via in cui Francesco abitava. Fratello minore dei precedenti fu Vitaliano (1720-1797), nunzio a Firenze e a Vienna e quindi, nel 1766, cardinale.
Al ramo primogenito appartengono invece Vitaliano (1792-1874), senatore del Regno nel 1853, e il figlio quartogenito Edoardo. Nato nel 1822, quest'ultimo abbracciò lo stato ecclesiastico, fu maestro di Camera di Pio IX e cardinale nel 1868. Prese parte al Concilio Vaticano I e morì nel 1881: è l'ultimo dei sette cardinali Borromeo.
Attualmente la famiglia si compone di due linee, ciascuna delle quali formata da un ramo primogenito e da un ramo secondogenito. Dal 1916, il primogenito della prima linea porta anche il titolo di principe (già concesso a Federico, fratello maggiore di san Carlo) con il predicato di Angera.